Viaggio a Tokyo
Quando arrivi a Tokyo, la metropoli più grande del mondo, vieni accolto dal suo silenzio assordante che ti lascia basito e senza parole, quasi come ti sentissi in colpa a rompere quell’incantesimo
















Amici, vento e mare
Incompiuti

A sentire gli adulti il periodo tra i 25 e i 35 anni dovrebbe essere il più bello della vita: tutti quelli che incontro non fanno che ripetermi che darebbero qualsiasi cosa per poterci tornare. Io ho 27 anni e vorrei soltanto avere un tasto avanti veloce sul telecomando da poter schiacciare e passare alla scena successiva.
Ho parlato di questa cosa anche con la mia ragazza, mi ha fatto notare che già il fatto che definisca loro “adulti” come se noi fossimo qualcosa di diverso è significativo. Forse la mia mente è ancora troppo legata al me adolescente, l’unica differenza che mi sembra di cogliere è che ora ho la barba. Le ho detto anche questo, continua a dirmi che dovrei parlarne con una psicologa.
Penso che la radice del problema nasca quando siamo bambini. Fino ai 12 anni cresciamo pieni di sogni e progetti per il futuro, con l’idea che la vita sia semplice, un po’ come il tabellone del monopoli in cui non devi fare altro che tirare i dadi per andare avanti e le caselle si susseguono una dopo l’altra senza rischio di sbagliare strada. Ma il casino vero inizia dopo la pubertà, al liceo, quando all’improvviso a metà partita ti cambiano tabellone e non capisci più come sei finito da parco della vittoria a pagare l’affitto di quattro case in Kamchatka.
Mi sembra di partecipare ad un gioco di cui penso di conoscere le regole ma solo quando sto perdendo mi rendo conto che qualcosa non torna, e ormai è troppo tardi per alzare la mano e farselo rispiegare.
Chiariamo, non è che la mia vita faccia schifo eh. Per carità, se paragonata a quella di un bambino indiano lavoratore sottopagato di 10 anni che cuce scarpe con solo due dita perché le altre le ha perse a causa di una mina davanti casa, io sto una crema. E per molte cose mi ci sento, una crema col ricciolo in cima. So di essere fortunato, sono un maschio bianco cis-etero nato in una cultura occidentale, ho anche fatto jackpot alla grande trinità dell’oroscopo che domina in Italia e si basa su amore, soldi e salute: sono fidanzato, ho un lavoro dignitoso e di salute più o meno me la cavo. Che voglio di più? Sono felice, e lo sono per la maggior parte del tempo; solo che a volte, in alcuni momenti tipo adesso, mi prende uno strano senso di vuoto, un peso che parte dallo stomaco e attanaglia tutto il corpo, e rende faticoso fare qualsiasi cosa, e rimango inebetito, ingabbiato nei miei pensieri.
Ecco, io in questi momenti non so come spiegarlo ma mi sento incompiuto. Mi sembra che la mia vita sia come un blocco di marmo affidato al miglior scultore del mondo, anzi dell’universo, che dopo anni di duro lavoro sta finendo di fare gli ultimi particolari di una statua bellissima, tipo i peli del naso. Poggia lo scalpello, fa un passo indietro per vedere la figura nell’insieme e solo allora si rende conto che si è dimenticato di fare i piedi. Non le dita, proprio tutti i piedi! E pensa “sti cazzi, ormai ho già poggiato lo scalpello è troppo tardi per sistemarli” spegne la luce e se ne va.
E io rimango lì, incapace di muovermi, lasciato ad appena un attimo dalla fine. Con dei peli del naso perfetti ma senza dei maledetti piedi per spostarmi. Con una vita con tutte le carte in regola per esplodere ma come se mancasse l’innesco.
Quando mi blocco su questi pensieri e inizio a riflettere sul mio quotidiano mi sembra di non essere l’unico a vivere questa sensazione, come se in quegli attimi dopo che la luce è stata spenta e gli occhi iniziano ad adattarsi al buio piano piano mi rendessi conto che nella stanza non sono mai stato solo per tutto il tempo. Quello scultore matto è recidivo, non ha scolpito a metà solo me ma tutti quelli che mi stanno intorno. Osservando i blocchi di marmo che sono le vite di chi mi circonda si vede a chi manca un braccio, a chi una mano, a chi un orecchio, a chi un cuore, a chi un figlio. E in questa mancanza ognuna di esse è incompiuta.
Che vuol dire tutto ciò? Quale è il senso di questa esistenza come congelata?
Per onestà intellettuale devo dire che questa storia delle statue incompiute non è tutta farina del mio sacco. La prima volta che ne ho sentito parlare andavo ancora al liceo, non ricordo molto di quello che dicesse la professoressa ma mi è rimasto questo concetto dell’incompiuto che aleggiava su alcune sculture di Michelangelo. L’esempio più emblematico forse sono I Prigioni, un gruppo scultorio che rappresenta degli schiavi preparati per abbellire un mausoleo ma mai finiti. Solo due sono stati posizionati, gli altri quattro sono rimasti come marmo grezzo non levigato fino in fondo ma solo abbozzato, con ancora il segno dello scalpello sui corpi e gli arti intrappolati nella pietra, coinvolti in un eterna lotta per uscirne.
Tantissimi hanno studiato il mistero di queste statue, c’è chi dice che dietro vi è una ricerca dell’artista del divino e queste statue rappresentano la tendenza dello spirito dell’uomo che tenta di liberarsi dalla pietra grezza che è il corpo per salire a Dio. Altri dicono che Michelangelo fosse un genio perfezionista ed ossessivo, che al minimo errore o imperfezione nella preparazione di una statua si arrabbiava a tal punto che la prendeva a martellate e smetteva di scolpire. Forse l’ipotesi che mi piace di più è l’ultima, che sostiene che semplicemente quando smetteva di scolpire una statua era perché si era rotto il cazzo.
Non so, nonostante fosse un genio questa idea lo fa risultare più umano, e forse legittima anche me a mollare le cose a metà.
Come queste righe.
Mi sono sforzato a lungo di cercare di dargli una conclusione positiva, o almeno sensata, ma forse non è questo il momento. Ho immaginato una versione in cui racconto come quello scalpello posato dallo scultore lo debba prendere in mano io e finire quei maledetti piedi da solo per far andare questa vita nella direzione che voglio io perché siamo noi responsabili del nostro futuro.
Sarebbe una bella conclusione ma ancora non ci credo fino in fondo, probabilmente è la verità ma non la sento ancora matura per me.
Probabilmente in questo momento ho solo bisogno di fissare per scritto una sensazione per ricordarla e poter pensare fra 10 anni quando la rileggerò che ero proprio un coglione e che darei qualsiasi cosa per poter tornare ad avere 27 anni.
Boys Don’t Cry
Non ho molti ricordi di mio babbo da piccolo. A parte qualche frammento sparso, le immagini più vivide che ho di lui iniziano intorno ai miei 14 anni. È stato un ottimo padre eh, non è che quando non c’era era a ubriacarsi o a farsi le canne con i suoi amici, ma eravamo comunque una famiglia di 5 persone che doveva mangiare con soltanto il suo stipendio, ammazzarsi di lavoro e tornare tardi era obbligatorio.
Per questo motivo la mia educazione extra scolastica era affidata principalmente a mamma, anche se dobbiamo riconoscerne una piccola parte pure ai miei fratelli, sopratutto per quello che riguardava DragonBall e Naruto.
Mamma mi portava e riportava da scuola, mi aiutava con i compiti, mi accompagnava a basket, a scuola di disegno: leggevo, giocavo, dormivo, praticamente tutto con lei. Anche a montare e smontare una bici me lo ha insegnato lei. È vero che non lavorava ma tenere a bada me e i miei fratelli era più faticoso, forse per questo babbo preferiva stare a lavoro.
Le cose che ho imparato da lui sono arrivate dopo, ad esempio mi ha insegnato a guidare e come si pagano le tasse; da bambino ricordo ancora con assoluta chiarezza mi insegnò tre cose fondamentali: il giro di DO alla chitarra, come caricare la musica sull’MP3 e che i maschi non piangono. Oggi non sono un chitarrista né un genio dell’informatica ma lo ringrazio per quello che mi ha insegnato.
E lo ringrazia pure la mia psicologa.
Questi pensieri sull’infanzia e sul mio rapporto con lui mi stanno tornando in mente ora che io ho 27 anni e lui 65. Vivo ancora con lui, anche se spero per poco (vorrei andarmene di casa, non vederlo schiattare eh!), ma nel ritornare a questo quotidiano dopo anni fuori mi sto rendendo conto di quanto lui sia invecchiato, e questa cosa mi distrugge.
Sabato sera, mentre ero fuori, ci siamo sentiti e mi ha detto che non usciva perché si sentiva poco bene. A stranirmi non è stato tanto quello che ha detto ma il tono, probabilmente era stanco o non gli andava di sbattersi per uscire, però nella sua voce si percepiva tutta la pesantezza dell’età e della vita passata.
Da li mi sono fatto tutto un film è mi è venuto il magone allo stomaco a pensare che se tutto va bene se ne andrà prima di me. Ho immaginato la sua vecchiaia, a casa coi pochi capelli del tutto bianchi, dimagrito, un po’ ingobbito…l’ombra di ciò che è stato. Lo immagino affaticato nel fare le cose del quotidiano, ma sempre orgoglioso come ora che non vuol chiedere aiuto.
So che ho 27 anni e non dovrei concentrarmi su queste cose, ma pensarci mi fa dire che in fondo anche per i maschi va bene commuoversi ogni tanto
